Nella notte tra il 14 e il 15 dicembre al Target Center di Minneapolis si affrontano due tra le squadre con meno prospettive, presenti e future, dell’intera Nba: i beniamini locali, i Timberwolves, ospitano i ben più blasonati Los Angeles Lakers, la grande nobile decaduta in cerca del proprio posto al sole – o anche solo un po’ meno all’ombra – nell’auspicata Nba della Restaurazione.
Per i gialloviola il presente è infatti avaro di soddisfazioni (7 partite vinte e ben 16 perse, al momento della palla a due, situazione non molto dissimile a quella nella data in cui pubblichiamo), a ormai quattro anni dall’ultimo titolo e a tre dall’ultima stagione di vertice, lasso di tempo inusuale per la franchigia che ha segnato decenni di storia della pallacanestro e fatto appassionare generazioni di tifosi.
A 5:24 dalla fine del secondo quarto Kobe Bryant batte facilmente dalla linea di fondo il rookie Zach LaVine, punta deciso verso l’area pitturata e si guadagna un paio di tiri liberi, cosa vistagli fare talmente tante altre volte, che di per sé non farebbe certo notizia, ancor meno clamore. Il pubblico però inizia a rumoreggiare, e non alla solita maniera volta a distrarre il giocatore in trasferta nel tentativo di trasformazione. Il numero 24 connette il primo tiro accarezzando il ferro, e il rumorio si fa sempre più insistente, l’aria più effervescente, ai limiti dell’impazienza; si percepisce quel fremito tipico dei momenti in cui la storia si compie, in cui le epoche si separano, in cui cambiano gli estremi, i termini di paragone, le sfumature. Kobe da par suo si appresta a battere il secondo libero eseguendo la sua tipica routine antecedente al tiro, con le due mani che strofinano, accarezzano, sembrano lustrare, forse per richiamarne l’offuscato splendore, la scritta “Lakers” cucita sulla maglia da ormai diciannove anni, prima di essere volte verso il basso per raccogliere il pallone. Il libero va dentro muovendo a stento la retina.
Il rumorio diventa quindi ovazione, il fremito lascia spazio alla celebrazione, alla consapevolezza che diciannove anni possono passare in un secondo; eh sì, sembra volata via, la carriera di Kobe Bryant. Eppure questa ha scandito la vita cestistica di tutti quelli che hanno condiviso con essa la loro adolescenza, regalando loro sogni straordinari e realtà indimenticabili, con intervalli bui, ben presenti alle menti più lucide e critiche, ma che sembrano di colpo scomparire come fossero stati inganni delle menti stesse, un po’ alla maniera in cui un uomo rinascimentale poteva approcciarsi al Medioevo. La partita si ferma, “il dado è tratto”, o più semplicemente è successo quello che ci siamo abituati a vedere talmente spesso che ci è sembrato una sorta di assunto inconfutabile della vita: Kobe Bryant che fa canestro, sai che novità! Stavolta però c’è molto di più: con il tiro libero messo a segno infatti la stella gialloviola ha appena segnato il suo punto numero 32.293 in carriera, cifra che lo porta al terzo posto nei realizzatori Nba di tutti i tempi e che gli permette di superare Sua Altezza Michael Jordan, per molti – quasi tutti, invero – la pallacanestro fatta uomo. Viene da pensare che fosse inevitabile succedesse, eppure il sapore rimane dolce e intenso, tutto da gustare. Il fatto che il traguardo sia stato raggiunto dalla lunetta forse toglie un po’ di epicità all’evento – Kobe, per primo, avrebbe magari preferito suggellarlo con un tiro fuori da ogni logica razionale e “privo di rispetto per la vita umana” dei suoi – ma insomma, siamo nell’ambito dei dettagli.
Certo è che ne ha fatta di strada il ragazzino ciondolante di Lower Merion High School, che nel 1996, non ancora maggiorenne, decise di fare il grande salto tra i professionisti dichiarandosi eleggibile per il Draft Nba senza passare per il college, pratica poco diffusa allora e divenuta poi più comune.
La partita finirà 100-94 in favore dei Lakers, guidati dai 26 punti dello stesso Bryant, ma non è questo il punto, e la notizia passa inevitabilmente in secondo piano di fronte all’ennesimo capitolo di una carriera con pochi eguali; le foto sono tutte per Kobe, tutti i principali notiziari sportivi americani celebrano il Black Mamba rendendo il giusto tributo a un uomo, un professionista e un lavoratore instancabile, dotato di un’etica e di un’abnegazione probabilmente senza eguali, nella storia dello sport, ai limiti della maniacalità e probabilmente anche oltre, ma che hanno identificato Kobe Bryant per quello che è e per come tutti lo riconoscono.
Spentesi le luci del palazzetto e consumatisi i doverosi festeggiamenti di rito, agli occhi degli appassionati si impone però anche un altro dato: i Lakers, per la prima volta in stagione, hanno vinto tre partite di fila, ed è breve il passo che porta a riflettere su come le ultime pagine della leggenda del numero 24 si stiano scrivendo in un contesto di tale mediocrità, con picchi depressivi senza precedenti.
Guardando il Kobe Bryant attuale, la prima sensazione, di pancia, d’istinto, che si prova è senz’altro l’ammirazione: un’ammirazione sincera, profonda, inevitabile, al cospetto di un 36enne reduce dai due infortuni più gravi della sua carriera (rottura del tendine d’Achille nell’aprile 2013, frattura del ginocchio nel dicembre dello stesso anno) ma che riesce ancora a danzare su un campo da basket con una leggiadria inavvicinabile, unica. Sua.
Infortuni che avrebbero probabilmente stroncato la carriera di un qualsiasi ventenne di belle speranze, e che senza dubbio avrebbero scritto la parola fine su quella di qualsiasi coetaneo dell’asso dei Lakers con alle spalle quasi 1500 partite, ma non quella di Kobe Bryant. Certo, l’esplosività non è più quella dei giorni migliori, e le gambe non sono più quelle dei primi anni, quando giocava con il numero 8 e sfoggiava un’accattivante capigliatura afro; ma le magie che questo signore riesce ancora a fare sui ventotto metri del campo dopo tutto quello che gli è successo non possono, non devono, lasciare indifferenti. La sinistra sensazione che queste magie rimangano però fini a se stesse è forte e ingombrante. Proprio per questo all’ammirazione si unisce rapidamente il rammarico, il rimpianto, di non poter ammirare probabilmente più Bryant in una squadra vincente, da titolo o anche solo in grado di far sognare, nel suo habitat naturale, insomma, quello dei grandi predatori; la sensazione che questo non sia giusto e che il destino si stia rivelando spudoratamente baro non può non fare breccia nel cuore dell’amante del gioco, e al rammarico subentra la frustrazione, financo la rabbia. Cerchiamo quindi di capire brevemente insieme quali siano stati i motivi che hanno portato i Lakers – e contestualmente Bryant – alla sgradevole e poco augurabile situazione attuale.
Nell’estate del 2013, con Kobe ancora nel pieno della fase di recupero dopo lo straziante infortunio al tendine, i Lakers hanno offerto alla loro stella un corposo rinnovo del contratto, mettendo sul piatto ben 48.5 milioni di dollari complessivi per due anni, facendone il giocatore più pagato della lega; scelta senz’altro romantica e per certi versi onorevole, in una visione deamicisiana della questione, ma molto probabilmente erronea – se non suicida – da un punto di vista tecnico ed economico. Infatti il nobile tentativo dei Lakers – in un basket sempre più cinico e aziendale – di giungere alla resurrezione attraverso il perseguimento di due dei più grandi free agent di sempre (all’epoca LeBron James e Carmelo Anthony erano sul mercato) è stato spazzato via dagli effetti di un contratto che fagocita sempre più l’universo lacustre, intasando a dismisura il tetto salariale imposto dalle regole Nba, che oltretutto vietano che il contratto stesso possa essere rinegoziato verso il basso. Un contratto che è stato aspramente criticato sin dal giorno dell’annuncio e che ancora oggi non cessa di far discutere, creando spaccature e lotte di fazione all’interno della tifoseria gialloviola e non solo.
Come sempre in questi casi c’è chi il contratto oggetto del contendere lo ha firmato, nel pieno esercizio dei suoi diritti di uomo e di lavoratore dipendente, e chi lo ha proposto, ovvero la società: qui si apre una questione fondamentale nell’analizzare la realtà dei Lakers, e stiamo parlando dello spaventoso vuoto di potere presente ai vertici di quella che ama farsi chiamare – in modo mai come oggi anacronistico – “la migliore organizzazione al mondo”. Infatti, dopo la morte dello storico e vincente proprietario, il Dottor Jerry Buss, nell’annus horribilis 2013, si è scatenata una tragicomica sfida per il potere tra il figlio Jim e la figlia Jeanie (fidanzata di Phil Jackson, dettaglio tutt’altro che trascurabile) che vede i due eredi impegnati più in proclami ampollosi e ridondanti che in una reale opera di pianificazione e miglioramento dell’assetto presente e soprattutto futuro della franchigia. Un front office che è inevitabile considerare composto da veri e propri dilettanti allo sbaraglio, allo stato attuale dei fatti, mal coadiuvati anche dall’ormai appannato general manager Mitch Kupchak, lontano parente del dirigente spregiudicato visto all’opera nelle stagioni precedenti (o forse soltanto rivelatosi nella sua reale poca affidabilità).
Alcuni hanno sottolineato il fatto che Bryant, forte di anni di guadagni principeschi, fatti di contratti coi Lakers e con i vari sponsor, non abbia fatto quel passo indietro che invece sarebbe stato lecito aspettarsi, da un agonista endemico come lui proiettato alla spasmodica caccia al sesto anello (anche qui, come MJ), e che abbia anteposto i record personali e il proprio conto in banca al bene della squadra e alle sue possibilità di competere per i traguardi più ambiziosi, come si evincerebbe anche dal suo atteggiamento spesso ritenuto troppo egoistico e indisponente in campo. Difficile dire quale sia il verso giusto dal quale vedere la cosa, perché come sempre in casi spinosi come questo non è del tutto chiaro quale sia la gamba del compasso che deve seguire l’altra; infatti, se da un lato la situazione dei Lakers è figlia del contratto esagerato del loro campione, dall’altro l’atteggiamento assunto da Bryant è conseguenza diretta della povertà tecnica con la quale è costretto a convivere, secondo il più classico ribaltamento del principio di causa-effetto.
Nel dare a Bryant due anni di estensione a quelle cifre senza nemmeno averlo visto giocare un minuto, Jim e Jeanie stavano probabilmente cercando di riflettere l’eredità del padre, o forse di uscire dalla sua ombra, o ancora di ingraziarsi i più nostalgici. È stata la mossa sbagliata nel momento peggiore. Nel tentativo di onorare Bryant hanno azzoppato i Lakers, e compromesso clamorosamente la loro credibilità di proprietari. Nel tentativo di ringraziare uno dei loro giocatori più grandi, in realtà ne hanno preparato un addio doloroso ed estenuante. Al momento, ovviamente, non avevano idea che il ritorno di Bryant sarebbe durato solo sei partite a causa di un nuovo grave infortunio, e che Kobe sarebbe entrato nel primo anno di questo nuovo contratto inghiottito nell’incertezza, anche sulla sua eventuale efficienza fisica. Ma avrebbero dovuto sapere che si trovavano a trattare con un giocatore, per quanto immenso, di 35 anni e dall’avanzato logorio atletico, per quanto straordinariamente tenace.
Certo, Kobe da par suo avrebbe potuto opporsi, ma si sa, è assai difficile convincere qualcuno a rifiutare quello che appare a tutti gli effetti come un regalo. Non c’era bisogno di dare a Bryant tutti quei soldi per il marketing, non c’era bisogno di farlo per lealtà. Non c’era bisogno di farlo, semplicemente. Citiamo le parole della stessa Jeanie Buss alla Time Warner Cable SportsNet (emittente particolarmente sensibile alle vicende losangeline, soprattutto in senso economico) in difesa del contratto della discordia: «Kobe, by signing that deal, will have played twenty years for one organization… To have that kind of longevity he’s had makes it extremely special, and I think that Laker fans understand that». Purtroppo per Jeanie, i tifosi dei Lakers capiscono una sola parola, che è per molti aspetti una condanna nonché la più importante nello sport professionistico: vincere. E sfortunatamente il concetto di vittoria ha ben poco a che fare con la gestione recente dei Los Angeles Lakers, a livello non solo pratico, ma anche teorico e ideologico; il corpo non può eseguire, se la mente non produce. Per di più, gli stessi tifosi sono costretti a provare sentimenti tipicamente catulliani nei confronti del loro idolo, poiché inconsciamente tutti si sono resi conto che l’ingombrante presenza dell’inimitabile 24 sul parquet, sarà, molto probabilmente, sinonimo di impossibilità di vittoria. Davvero un boccone troppo amaro da mandare giù senza almeno accennare una smorfia.
Chissà, probabilmente lo stesso Bryant, al posto dei “giovani” Buss, avrebbe agito in maniera molto più lucida, più cerebrale che sentimentale, anche se questo non possiamo saperlo, non con assoluta certezza. Ma pensiamoci lo stesso un attimo: sapendo che c’erano due stelle disponibili a unirsi a lui, il Black Mamba avrebbe accettato di siglare un accordo meno invasivo, a un prezzo equo per una stella non più nel suo momento di massimo splendore? Avrebbe accettato meno soldi, ripagato dalla magia e dalle emozioni dei playoff, delle grandi battaglie, delle Finals, come altre stelle Nba spesso fanno e hanno fatto? Possibile. Di sicuro sarebbe stato bello vedere che cosa avrebbe potuto fare messo faccia a faccia con questa opportunità.
Un’altra questione di strettissima attualità che sta tenendo banco nell’universo Lakers è quella inerente le bassissime percentuali dal campo fatte registrare finora da Bryant in questa stagione. Kobe infatti sta totalizzando un più che modesto 37 % complessivo, cifra di ben cinque punti percentuali inferiore a quella mantenuta nel suo anno da rookie, sua peggiore prima dell’attuale. Il tutto amplificato dal recente “record” battuto dal numero 24, questa volta distintosi in negativo come giocatore gravato del maggior numero di tiri sbagliati nella storia della lega. Le soluzioni tentate dal capitano gialloviola sono spesso a bassissima probabilità di riuscita, estemporanee, avulse da ogni tipo di idea di gioco di squadra e di sistema, addirittura improvvisate; possibile che un giocatore di 36 anni, evidentemente allo stremo fisico, si trovi nelle condizioni di doversi sobbarcare tutta o quasi la produzione offensiva della sua squadra, oltre che nella possibilità di farlo? Possibile che i Lakers non siano stati in grado di dotarsi almeno di una – se non più – alternativa credibile al solo e unico Bryant? I motivi li abbiamo citati in precedenza, lo scenario societario non presta il fianco ai sogni, e a Kobe non rimane che fare quello che più lo fa sentire libero: tirare, tirare, tirare.
Il Kobe Bryant che oggi si pone sotto i nostri occhi è un uomo che si sente in lotta contro il mondo, contro una realtà horror con cui probabilmente mai si sarebbe immaginato di dover convivere, contro i suoi compagni, non considerati passibili della sua stima o anche solo della sua considerazione, contro il suo stesso corpo, che non risponde più agli input provenienti dalla testa. Così facendo Kobe ci appare nella sua versione autodistruttiva, indisciplinata, per larghissimi tratti insopportabile e autoreferenziale, e non pare certo Byron Scott il coach più adatto a fare tornare nei ranghi la sua superstar.
Questo ci porta a fare un breve accenno al modo in cui viene gestito il giocatore: i minuti passati di media in campo dal Mamba (oltre 35) risultano essere assolutamente troppi per un elemento logoro e con la sua carta d’identità, eppure Scott sembra non avere sufficiente carisma per tenere fuori il suo principale – e disperato – terminale offensivo. In questo senso Scott appare nella sua veste di coach “adatto” all’attuale mediocrità lacustre, poco mediatico, poco emozionale ed emozionante, questo a livello temperamentale, mentre è onestamente difficile giudicare il lavoro tecnico di un allenatore avente a disposizione un materiale umano così povero e scadente – se non proprio scaduto.
Dove sta quindi la verità? Cosa sarebbe potuto essere e invece non è stato? Rispondendo alla prima domanda, la verità sta – proverbialmente – nel mezzo. Perché tutto questo non si verificasse era necessaria una comunione d’intenti tra proprietà e giocatore, un piano concreto e particolareggiato d’azione, un inestinguibile desiderio di eccellere da ambo le parti, e non solo di una di esse, o ancor peggio nessuna. Ma con una dirigenza che sembra avere deciso di accontentarsi di rimarcare pedissequamente il glorioso ed estinto passato, non resta altro da fare che godersi gli ultimi balli del nostro, grande ed inimitabile Kobe, quantomeno nel ricordo di quello che è stato, almeno fino al prossimo record, o fino alla prossima partita che vincerà da solo, alla sua vecchia maniera, con la sua regale eleganza, lasciandoci ancora una volta a bocca aperta ad esclamare ed insieme domandarci: «Ancora?! Ma come diamine fa?!». E allora, per un attimo ancora, le nubi si diraderanno, anche se, duole dirlo, in questo momento il cielo sopra Los Angeles e sopra Kobe è davvero troppo coperto perché si possa parlare di vero sole.
“L’infinita leggerezza dell’essere famosi”, si diceva. Essere Kobe Bryant, di questi tempi, non è poi così facile. O forse sì. Il campionissimo gialloviola è abituato come nessuno a convivere con le critiche di detrattori implacabili, e del resto portare cinque anelli alle dita ed essere il terzo marcatore della storia del gioco non è poi così male come fardello da portare. E in fondo anche a noi, che lo abbiamo visto giocare per quasi vent’anni, tanto male non è andata, non trovate? In fin dei conti c’è ancora maggiore possibilità di successo in un fadeway dalla linea di fondo del Mamba che in un’operazione di mercato condotta dal management che gli corrisponde le spettanze, anche se per chi tifa Lakers questo non è esattamente il miglior viatico per dormire sonni tranquilli.
Kobe è da solo sull’isola. Più di quanto lo sia mai stato.
Francesco (Dandi) Madonia