Se vi chiedessero come riassumere la carriera di Kobe Bryant, che parole usereste? Come lo ricordereste? Racchiudereste vent’anni in un concetto, o una citazione magari, oppure la reazione più istintiva che vi viene è quella di scrivere fiumi di parole, che inevitabilmente non basteranno a contenere tutto ciò che ci ha trasmesso?
Per me è andata così. Mesi passati a far finta che quel giorno non dovesse arrivare, mentre un sordo dolore covava nel petto. Pochi giorni per capire che non avrei mai metabolizzato il fatto che lui dal 13 Aprile non è più un giocatore di basket professionistico, e certamente un semplice commiato non avrebbe risolto nulla, nella mia testa. Colui di cui noi – come comunità di folli e appassionati – abbiamo seguito le orme non è certamente un alieno. Non ha imposto il suo dominio nel gioco perché è stato un talento unico che ha superato le barriere razziali, di povertà, del degrado con una storia ormai cementata e consolidata nella lore afro-americana. Non è uno scherzo della natura come Chamberlain, Shaq o Kareem. Non è l’atleta del secolo come Jordan. Non c’entra niente con Magic. Non è certamente Lebron. Kobe il suo talento l’ha coltivato. Nella campana di vetro di un’infanzia fortunata ha trovato le radici del successo, che dall’essere uno skinny kid di un 1.98 m, come ce ne sono tanti, l’ha portato ad essere il primo degli “umani”. E’ stato Icaro che ha raggiunto e sfidato il Sole, Prometeo che ha catturato la fiamma, un semidio greco che aveva lo stesso dono di molti altri, ma una volontà inarrestabile e insaziabile. Parlare di numeri in questa sede sarebbe ingeneroso nei suoi confronti e racconterebbe solo una parte della storia, che sarebbe gloriosa di per sé solo citando i 33,643 punti, i 5 titoli, i 36 tiri della vittoria, o le 6 partite con 60 o più punti… Queste cose le do per acquisite. La sua eredità è ben diversa, trascende le mere cifre. E’ una costellazione di ricordi, emozioni, notti insonni (una delle sensazioni più belle in assoluto: non riuscire a dormire dopo una vittoria) e il suo essere icona del basket non è solo lanciare una pallina di carta in un cestino e spezzare il polso, come sanno i falchi della notte che lo hanno seguito per anni, ma è essere il condottiero di tutti noi, il termine di paragone per qualunque situazione, colui il quale avremmo seguito ciecamente per andare a conquistare l’Uruguay. Per vincere o morire. La parabola cestistica di Kobe somiglia molto all’arco di una vita: la crescita, l’esplosione e la maturazione con in mezzo i problemi da adulto, la completa padronanza psicofisica di sé (e del gioco), gli acciacchi, la vecchiaia… Con un finale a sorpresa. E l’abbiamo accompagnato, chi più chi meno, durante tutto il suo cammino: eravamo al Forum, allo Staples, eravamo a Portland, a Boston, a Indianapolis, a Denver, c’eravamo in preseason e nelle Finals, c’è chi fisicamente è andato in pellegrinaggio a L.A., a Oakland, a Barcellona… La motivazione ricorrente? Perché una volta nella vita andava fatto. Un onore che si riserva a pochi eventi nell’arco nella nostra breve esistenza. E’ considerato pericoloso, o quantomeno difficilmente spiegabile oggi tifare in modo viscerale una squadra, o uno sportivo, ma la verità è che Kobe Bryant incarna per me la figura di eroe moderno: un essere umano capace, in una lega ipercompetitiva, di imporre il suo volere e di compiere impresa dopo impresa, apparentemente invincibile di fronte alle avversità, che motiva te stesso non solo ad imparare un fadeaway o a migliorare la tua tecnica di tiro, ma che spinge a migliorarti nella vita di tutti i giorni. Parliamo di una persona che a 22 anni, reduce da un infortunio non lieve, con O’Neal fuori per falli nel momento cruciale della sua prima Finale Nba, ha le palle per dire a una squadra piena di veterani: hey guys, I’ve got this. Vince la partita da solo e pochi giorni dopo il titolo. Di quali ulteriori motivazioni abbiamo bisogno dopo una dimostrazione del genere? Lo abbiamo venerato anche perché è stata la cosa più vicina al Dio del basket. Ha stracciato, finché ha portato la torcia di padrone della lega, ogni giocatore accostatogli: Iverson, Carter, McGrady… Sono dovuti soccombere. Wade è un gradino sotto, pur navigando nell’eccellenza. Lebron è un altro tipo di giocatore, così come Duncan. Per quanto riguarda Jordan, Kobe ha avuto difficoltà a raggiungere quella disumana continuità, quell’intensità irripetibile sui due lati del campo, per cento partite l’anno. Ma probabilmente ha raggiunto picchi individuali più alti, con un range di tiro e alcune tipologie singole di tiro mai raggiunte dal 23 (perché non ne aveva bisogno, va detto). Il solo fatto che possa essere accostato a Jordan – a tutti i livelli – senza mettersi a ridere è un complimento come pochi altri. Sedici anni di tifo in Purple & Gold e otto anni di militanza attiva su Lakersland sono stati a tutti gli effetti un successo, e un onore. Sette finali, tre vissute in diretta e due titoli, con le gioie che superano di gran lunga i dolori, sono stati un premio troppo grande per starsene in silenzio. Un personaggio come lui non andrà via dal basket, lo ama e lo ossessiona troppo per allontanarsene, mentre scrivo queste parole probabilmente è già tornato ad allenarsi… Ma non calcherà più il campo di Figueroa St., almeno con la #24 indosso. La pallacanestro che conta, in realtà, non la gioca più dal 2013, una delle mie stagioni preferite perché romantica e struggente. Poche settimane fa ESPN ha scritto di come, dopo aver garantito l’accesso a quei playoff, lui abbia sacrificato (a posteriori) la sua carriera per un obiettivo effimero, inanellando 28 vittorie nelle ultime 40 partite e culminando con l’infortunio al tendine d’Achille contro i Warriors. Chi è un eroe se non costui? E ovviamente mantenne la parola, perché quei Lakers fecero i playoff (perdendo, ma il messaggio era passato). Lo ha fatto his way, che non è mai coincisa con la highway. Ecco perché con lui non esistevano mezze misure, si odiava o si amava: non perché vinceva, non perché accentrava su di sé ogni responsabilità, non perché ti pugnalava ripetutamente nel 4° quarto, ma perché per seguirlo bisognava percorrere la strada meno battuta. The most important thing is to try and inspire people so that they can be great in whatever they want to do. Grazie di tutto. Te ne sarò grato per sempre. E sono sicuro che sarà lo stesso per tutti voi.
– Lakeshow –