L.A. Lakers @ Utah Jazz L 86-95 (1-4)


Il bene dei Lakers. L’effimero concetto per cui siamo qui, notte dopo notte, a soffrire (tanto) e a gioire (poco) in orari disumani, sognando un futuro migliore per queste anime tormentate. Perchè un presente peggiore di questo non ci può essere.

L’avvicinamento alla spesso perniciosa trasferta di Salt Lake City è cominciato con un appello ripetuto a gran voce da tutti, in un forum dove raramente si è d’accordo in modo unanime, un appello accompagnato – come si usa di questi tempi – con un hashtag: #FireMikeBrown.

Chi non conosce ciò che sta accadendo, potrebbe dire che stiamo tifano contro. Ma non è così. Per il bene dei Los Angeles Lakers, di Kobe Bryant, di Dwight Howard, di Steve Nash, di Pau Gasol e di tutti gli altri, è bene che quest’uomo si faccia da parte. Al più presto.

Nel momento in cui hai questo materiale a disposizione, e sai con assoluta certezza che una partita è segnata contro una squadra che lotterà a malapena per i playoff, o sei i Bobcats, o c’è qualcosa di molto serio che non va.

I primi possessi della partita sono avvilenti: 0 punti nei primi 3 minuti, incapacità totale a dare la palla sotto, e appena ci riusciamo perdiamo palla immediatamente. Dal 1/2 passo avanti fatto coi Pistons, stanotte ne abbiamo fatti 3 indietro.

Fluidità offensiva inesistente, stessi 2 o 3 sets ripetuti ottusamente e con Blake al posto di Nash: vi lascio immaginare il risultato…in difesa non c’è comunicazione, veniamo puniti sistematicamente dal loro attacco che ormai dovremmo conoscere a memoria: punti su tagli back-door o dopo una normale circolazione di palla arrivano come se piovesse, a rimbalzo offensivo veniamo puntualmente sovrastati da Millsap, e abbiamo a momenti più palle perse che canestri.

Utah va small nel secondo quarto, come tutte le altre 28 panchine NBA e come farebbe un allenatore quantomeno consapevole di quello che gli accade intorno. Brown risponde con il seguente quintetto: Morris-MWP-Jamison-Hill-Howard. Il parziale che prendiamo immediatamente (16-4) no sorprende nessuno, perchè è esattamente come non si schiera una squadra in campo. E’ troppo dire che anche mia madre vedrebbe che Hayward marcato da Jamison è qualcosa di terribilmente sbagliato?

Paradossalmente, col quintetto tanto alto quanto scellerato, subiamo tanto da Kanter e Favors e meno dalle guardie (che chiuderanno il conto dopo), ma ormai il solco decisivo è stato scavato: a fine primo tempo è 51-41 Jazz nonostante un numero di tiri liberi spropositatamente a nostro favore (alla fine saranno 46 tentati contro 18) non riuscendo mai a scendere sotto gli 8 punti di svantaggio.

Addossare tutta la colpa ad un coaching staff può risultare ingeneroso, e parlare di giocatori messi male in campo può sembrare strano in un campo che non sia di calcio, ma il brutto è che è proprio così. Veterani di mille battaglie ridotti così, spaesati, infastiditi, con Eddie Jordan che più di una volta si è esibito in proverbiali facepalm perchè non sapeva palesemente dove guardare è sintomo di un disastro imminente.

E non conta che a metà terzo quarto arriviamo fino a -4 (56-60), non conta che alla fine Kobe si metta in proprio con 15 punti nel 4° quarto, perchè questa è la normalità, è quello che siamo capaci di fare in condizioni normali, di vuoto d’aria, senza nessuno al timone.

Conta tutto il resto, quello che abbiamo visto in 5 partite e 8 amichevoli: 12 sconfitte e una vittoria, nessuna speranza, nessun miglioramento, niente di niente.

Stasera chiudiamo con il 33% dal campo, 18 palle perse, 4-23 dall’arco, solo 25 FG e la panchina che viene spazzata via 36-12. C’è altro da dire? si, c’è.

E’ un appello, prendendo in prestito ciò che diceva un discreto scrittore italiano: se non ora, quando?


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